Quante volte abbiamo sentito dire – o pronunciato noi stessi – frasi del tipo: è bella, e anche brava! Oppure Se piangi sembri una femminuccia o, ancora, Non credevo che alla tua età riuscissi a farcela! E quante volte abbiamo trattato in maniera diversa una persona solo perché portatrice di una disabilità? Tanti nostri atteggiamenti e tante nostre espressioni sono frutto di pregiudizi, più o meno consapevoli, che condizionano le nostre azioni, e questo sul luogo di lavoro può causare condizioni di disagio e malessere, fino ad arrivare a situazioni di vera e propria iniquità e disuguaglianza.
Nell’evento “Bias Buster | Stereotipi e pregiudizi nel mondo del lavoro: istruzioni per l’uso”, secondo incontro del ciclo Re-Act di Leonardo Assicurazioni, ne abbiamo parlato con dei professionisti per capire come gli individui, ma anche le organizzazioni, possano re-agire, favorendo un ambiente di lavoro meno tossico e più inclusivo.
Quante volte abbiamo sentito dire – o pronunciato noi stessi – frasi del tipo: è bella, e anche brava! Oppure Se piangi sembri una femminuccia o, ancora, Non credevo che alla tua età riuscissi a farcela! E quante volte abbiamo trattato in maniera diversa una persona solo perché portatrice di una disabilità? Tanti nostri atteggiamenti e tante nostre espressioni sono frutto di pregiudizi, più o meno consapevoli, che condizionano le nostre azioni, e questo sul luogo di lavoro può causare condizioni di disagio e malessere, fino ad arrivare a situazioni di vera e propria iniquità e disuguaglianza.
Nell’evento “Bias Buster | Stereotipi e pregiudizi nel mondo del lavoro: istruzioni per l’uso”, secondo incontro del ciclo Re-Act di Leonardo Assicurazioni, ne abbiamo parlato con dei professionisti per capire come gli individui, ma anche le organizzazioni, possano re-agire, favorendo un ambiente di lavoro meno tossico e più inclusivo.
Che differenza c’è tra Bias e Stereotipi?
Per capire il focus del problema, bisogna innanzitutto conoscere il significato dei termini di cui stiamo parlando: cosa significano bias e stereotipi? Lo spiega Annalisa Valsasina, Psicoterapeuta e Consulente DE&I, che ha aperto l’incontro: bias sono delle scorciatoie mentali– di cui tutti siamo portatori – che ci consentono di classificare velocemente una persona riconducendola, con un processo rapido, veloce, immediato e proprio per questo estremamente semplicistico, in categorie mentali precostituite: affinità, bellezza, somiglianza, genere. Gli stereotipi, invece, sono categorie basate su aspetti culturali, definiti socialmente, che possono avere degli effetti diretti e indiretti sul benessere psico-fisico delle persone.
Possono impattare, infatti, sulla nostra libera espressione, sulle nostre ambizioni, sulla nostra formazione, sulla scelta di un corso di studi piuttosto che un altro perché considerato, dalla società, non adatto al nostro genere; ma impattano altrettanto fortemente sulla possibilità di accesso al mondo del lavoro, nei processi di selezione, nei comportamenti tra colleghi, creando diseguaglianze e iniquità. E molto spesso si manifestano nel quotidiano, attraverso il linguaggio e la comunicazione.
Se è vero, infatti, che il linguaggio è un atto di identità, non sempre lo utilizziamo correttamente e con la giusta consapevolezza: al contrario, molte volte ciò che diciamo è frutto di un automatismo, ossia di stereotipi e costrutti mentali che fanno parte del nostro essere da sempre e che dunque consideriamo “normali”. L’utilizzo inconsapevole di queste parole può creare, invece, situazioni di disagio, di imbarazzo, vere e proprie micro-aggressioni che si ripetono costantemente nelle relazioni quotidiane. Cosa fare dunque per affrontarle e gestirle?
Che differenza c’è tra Bias e Stereotipi?
Per capire il focus del problema, bisogna innanzitutto conoscere il significato dei termini di cui stiamo parlando: cosa significano bias e stereotipi? Lo spiega Annalisa Valsasina, Psicoterapeuta e Consulente DE&I, che ha aperto l’incontro: bias sono delle scorciatoie mentali– di cui tutti siamo portatori – che ci consentono di classificare velocemente una persona riconducendola, con un processo rapido, veloce, immediato e proprio per questo estremamente semplicistico, in categorie mentali precostituite: affinità, bellezza, somiglianza, genere. Gli stereotipi, invece, sono categorie basate su aspetti culturali, definiti socialmente, che possono avere degli effetti diretti e indiretti sul benessere psico-fisico delle persone.
Possono impattare, infatti, sulla nostra libera espressione, sulle nostre ambizioni, sulla nostra formazione, sulla scelta di un corso di studi piuttosto che un altro perché considerato, dalla società, non adatto al nostro genere; ma impattano altrettanto fortemente sulla possibilità di accesso al mondo del lavoro, nei processi di selezione, nei comportamenti tra colleghi, creando diseguaglianze e iniquità. E molto spesso si manifestano nel quotidiano, attraverso il linguaggio e la comunicazione.
Se è vero, infatti, che il linguaggio è un atto di identità, non sempre lo utilizziamo correttamente e con la giusta consapevolezza: al contrario, molte volte ciò che diciamo è frutto di un automatismo, ossia di stereotipi e costrutti mentali che fanno parte del nostro essere da sempre e che dunque consideriamo “normali”. L’utilizzo inconsapevole di queste parole può creare, invece, situazioni di disagio, di imbarazzo, vere e proprie micro-aggressioni che si ripetono costantemente nelle relazioni quotidiane. Cosa fare dunque per affrontarle e gestirle?
Annalisa Valsasina
Psicologa, psicoterapeuta, Gender Equity Senior Consultant
L’importanza di una comunicazione consapevole
La parola chiave è consapevolezza. Tutti abbiamo in noi qualche pregiudizio mentale: quello che possiamo fare è fermarci a riflettere su quello che stiamo dicendo, intervenire attivamente su di noi e sugli altri, rispondendo, esplicitando il nostro disagio, dichiarando il nostro disaccordo, prendendo le distanze, creando così sensibilizzazione nell’altro.
L’intenzione comunicativa e l’effetto che le parole generano non sempre coincidono. Prendere consapevolezza di questa distinzione e agire di conseguenza può aiutare a risolvere una situazione di disagio psico-fisico legato a uno stereotipo.
L’importanza di una comunicazione consapevole
La parola chiave è consapevolezza. Tutti abbiamo in noi qualche pregiudizio mentale: quello che possiamo fare è fermarci a riflettere su quello che stiamo dicendo, intervenire attivamente su di noi e sugli altri, rispondendo, esplicitando il nostro disagio, dichiarando il nostro disaccordo, prendendo le distanze, creando così sensibilizzazione nell’altro.
L’intenzione comunicativa e l’effetto che le parole generano non sempre coincidono. Prendere consapevolezza di questa distinzione e agire di conseguenza può aiutare a risolvere una situazione di disagio psico-fisico legato a uno stereotipo.
Le diversità come valore
Se questo è quanto può fare l’individuo per re-agire ai pregiudizi, anche le organizzazioni possono fare molto per favorire l’inclusione nel contesto lavorativo, valorizzando le diversità partendo proprio da una comprensione intersezionale delle esigenze dei collaboratori. Per fare ciò, come sottolinea Dalila D’Ingeo, Research Specialist Centro Studi ValoreD, un primo fondamentale step per le aziende che vogliono lavorare su diversità e inclusione, è quello della mappatura della popolazione aziendale a tutti i livelli, ossia una raccolta scientifica di dati sulla composizione demografica dei collaboratori – etnia, genere, disabilità, propensione a lavorare da remoto… – così da conoscere e quindi poter personalizzare gli approcci inclusivi, implementando quelle politiche che possono favorire e potenziare le diversità. La necessità di equità non deve essere solo un obiettivo numerico di diversità, ma un mezzo per fornire alle persone opportunità basate su bisogni specifici. Senza contare che, anche per l’azienda, team di lavoro basati sulle diversità producono performance migliori di crescita e produttività.
Inclusione significa creare un ambiente che valorizzi le diverse prospettive e contribuisca alla crescita delle persone e alla sostenibilità aziendale.
Le diversità come valore
Se questo è quanto può fare l’individuo per re-agire ai pregiudizi, anche le organizzazioni possono fare molto per favorire l’inclusione nel contesto lavorativo, valorizzando le diversità partendo proprio da una comprensione intersezionale delle esigenze dei collaboratori. Per fare ciò, come sottolinea Dalila D’Ingeo, Research Specialist Centro Studi ValoreD, un primo fondamentale step per le aziende che vogliono lavorare su diversità e inclusione, è quello della mappatura della popolazione aziendale a tutti i livelli, ossia una raccolta scientifica di dati sulla composizione demografica dei collaboratori – etnia, genere, disabilità, propensione a lavorare da remoto… – così da conoscere e quindi poter personalizzare gli approcci inclusivi, implementando quelle politiche che possono favorire e potenziare le diversità. La necessità di equità non deve essere solo un obiettivo numerico di diversità, ma un mezzo per fornire alle persone opportunità basate su bisogni specifici. Senza contare che, anche per l’azienda, team di lavoro basati sulle diversità producono performance migliori di crescita e produttività.
Inclusione significa creare un ambiente che valorizzi le diverse prospettive e contribuisca alla crescita delle persone e alla sostenibilità aziendale.
Dalila D’Ingeo
Centro Studi Valore D – Research Specialist
Annalisa Valsasina
Psicologa, psicoterapeuta, Gender Equity Senior Consultant
Diego Ingrassia
Master Trainer di Paul Ekman International e CEO di I&G Management Milano
Gianmarco Pinto
CEO & Founder di Game2Value
Dalila D’Ingeo
Centro Studi Valore D – Research Specialist
Disabilità e gap generazionale: le aziende italiane sono impreparate
Ed è proprio per aiutare le aziende ad analizzare il livello di cultura interna e di maturità dei propri dipendenti sui temi dell’inclusione e delle diversità, che è stato progettato il videogioco di Gianmarco Pinto, Ceo&Founder di Game2Value: attraverso il gioco le persone abbandonano, infatti, ogni infrastruttura culturale, abbassano i meccanismi di difesa, esternando comportamenti e atteggiamenti inconsci e primordiali.
Dall’analisi di una quarantina di aziende e circa 15mila persone, Pinto e il suo team hanno potuto avere un quadro di come si posizionano oggi le aziende italiane rispetto a questi temi. Se sulle differenze di genere ed etnico-culturali si stanno facendo molti passi avanti, quello su cui c’è ancora bisogno di lavorare molto sono i temi del gap generazionale e della disabilità. Nel campione studiato, quasi il 30% delle persone cambia il proprio metro di giudizio e le proprie opinioni nel momento in cui ha a che fare con una persona di una generazione diversa dalla propria, così come, di fronte ad una persona con una disabilità, quasi il 70% cambia il proprio atteggiamento, come se ci fosse una correlazione diretta tra disabilità e abilità professionale. Solitamente l’atteggiamento più diffuso è quello tutelante, il che è un esempio di grosso bias, perché in questo modo si sta implicitamente dichiarando che quella persona non è in grado di compiere una determinata attività.
Il gioco può essere un valido strumento per esplorare e migliorare la cultura aziendale riguardo l’inclusività, un mezzo non invasivo per apprendere e interagire.
Disabilità e gap generazionale: le aziende italiane sono impreparate
Ed è proprio per aiutare le aziende ad analizzare il livello di cultura interna e di maturità dei propri dipendenti sui temi dell’inclusione e delle diversità, che è stato progettato il videogioco di Gianmarco Pinto, Ceo&Founder di Game2Value: attraverso il gioco le persone abbandonano, infatti, ogni infrastruttura culturale, abbassano i meccanismi di difesa, esternando comportamenti e atteggiamenti inconsci e primordiali.
Dall’analisi di una quarantina di aziende e circa 15mila persone, Pinto e il suo team hanno potuto avere un quadro di come si posizionano oggi le aziende italiane rispetto a questi temi. Se sulle differenze di genere ed etnico-culturali si stanno facendo molti passi avanti, quello su cui c’è ancora bisogno di lavorare molto sono i temi del gap generazionale e della disabilità. Nel campione studiato, quasi il 30% delle persone cambia il proprio metro di giudizio e le proprie opinioni nel momento in cui ha a che fare con una persona di una generazione diversa dalla propria, così come, di fronte ad una persona con una disabilità, quasi il 70% cambia il proprio atteggiamento, come se ci fosse una correlazione diretta tra disabilità e abilità professionale. Solitamente l’atteggiamento più diffuso è quello tutelante, il che è un esempio di grosso bias, perché in questo modo si sta implicitamente dichiarando che quella persona non è in grado di compiere una determinata attività.
Il gioco può essere un valido strumento per esplorare e migliorare la cultura aziendale riguardo l’inclusività, un mezzo non invasivo per apprendere e interagire.
Gianmarco Pinto
CEO & Founder Game2Value
Le emozioni? Sono tutte importanti, impariamo a dosarle
E torniamo allora alle persone e alle loro emozioni nel contesto aziendale: quanto sono considerate sul posto di lavoro? È Diego Ingrassia, Formatore e CEO e partner della società I&G Management di Milano, uno dei più grandi esperti dell’intelligenza emotiva, a spiegare come oggi, fortunatamente, si sia arrivati a comprendere quanto le competenze emotive abbiano un impatto significativo sulle performance lavorative e vadano dunque conosciute e favorite. Basta guardare al mondo dello sport per capire come ad esempio la rabbia possa essere canalizzata per trasformarsi in determinazione, o come la tristezza, lungi dall’essere un’emozione negativa da demonizzare come sinonimo di debolezza, possa anzi favorire un lavoro di introspezione e di concentrazione su sé stessi.
La verità, sottolinea Ingrassia, è che non esistono emozioni negative e non esistono emozioni da silenziare o controllare: tutte possono essere utili, basta imparare ad esplorarle, a conoscerle e a dosarle correttamente. Così l’ansia da prestazione, anziché bloccarci, può divenire uno stimolo per aumentare la focalizzazione e l’attenzione su ciò che stiamo facendo. “Consideriamo le emozioni come il sale della vita: essenziali, ma da dosare con sapienza, regolandone l’intensità”. Come? Lavorando, come su qualsiasi altra competenza, su un’alfabetizzazione emotiva, sulla formazione, sulla consapevolezza, sull’auto-osservazione dei segnali che ci dà il nostro corpo, così da imparare a conoscere ogni nostra emozione e ad utilizzarla in modo più efficace nelle diverse situazioni.
Piuttosto che di inclusività, che di per sé richiama un concetto di esclusione, meglio parlare di coesistenza delle diversità all’interno di un ambiente di lavoro: a questo possono e devono puntare le aziende.
Le emozioni? Sono tutte importanti, impariamo a dosarle
E torniamo allora alle persone e alle loro emozioni nel contesto aziendale: quanto sono considerate sul posto di lavoro? È Diego Ingrassia, Formatore e CEO e partner della società I&G Management di Milano, uno dei più grandi esperti dell’intelligenza emotiva, a spiegare come oggi, fortunatamente, si sia arrivati a comprendere quanto le competenze emotive abbiano un impatto significativo sulle performance lavorative e vadano dunque conosciute e favorite. Basta guardare al mondo dello sport per capire come ad esempio la rabbia possa essere canalizzata per trasformarsi in determinazione, o come la tristezza, lungi dall’essere un’emozione negativa da demonizzare come sinonimo di debolezza, possa anzi favorire un lavoro di introspezione e di concentrazione su sé stessi.
La verità, sottolinea Ingrassia, è che non esistono emozioni negative e non esistono emozioni da silenziare o controllare: tutte possono essere utili, basta imparare ad esplorarle, a conoscerle e a dosarle correttamente. Così l’ansia da prestazione, anziché bloccarci, può divenire uno stimolo per aumentare la focalizzazione e l’attenzione su ciò che stiamo facendo. “Consideriamo le emozioni come il sale della vita: essenziali, ma da dosare con sapienza, regolandone l’intensità”. Come? Lavorando, come su qualsiasi altra competenza, su un’alfabetizzazione emotiva, sulla formazione, sulla consapevolezza, sull’auto-osservazione dei segnali che ci dà il nostro corpo, così da imparare a conoscere ogni nostra emozione e ad utilizzarla in modo più efficace nelle diverse situazioni.
Piuttosto che di inclusività, che di per sé richiama un concetto di esclusione, meglio parlare di coesistenza delle diversità all’interno di un ambiente di lavoro: a questo possono e devono puntare le aziende.
Diego Ingrassia
Master Trainer di Paul Ekman International, CEO I&G Management Milano